Per anni, l’elemento narrativo, in pittura, è parso un corpo estraneo, una bizzarria, un’anomalia da cui l’arte d’avanguardia dovesse guardarsi e in qualche modo difendersi, quasi temesse di venirne fatalmente contagiata nella sua austera purezza.
Eppure, grandi pittori hanno continuato a seguirne le tracce, come soldati in trincea, disposti a non arrendersi mai, anche nel mezzo delle più dure battaglie.
Penso, in Italia, alle prove straordinarie dei pittori del Realismo esistenziale, con le loro atmosfere drammatiche e tese; a quelle del gruppo della Metacosa, o a quelle, lontane, della Nuova Figurazione degli anni Settanta, rinverdite negli anni a cavallo tra Novecento e Duemila dalle nuove generazioni di giovani artisti, che vedevano nelle suggestioni date dalle potenzialità di una narrativa che prendesse spunto anche dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla Tv al cinema, per raccontare la contemporaneità.
Un’artista come Carolina Ferrara sembra non essere estranea a tali suggestioni, riuscendo però, come molta parte del nuovo cinema italiano acclamato nel mondo è altrettanto efficacemente riuscito a imprimere alla sua fisionomia, a creare un proprio linguaggio visuale indipendente e originale e una propria autonomia di riferimenti culturali, visivi, poetici.
Le opere di Carolina Ferrara sono infatti tranches de vie di una contemporaneità che sembra aver smesso di rincorrere le suggestioni formali offerte dagli altri linguaggi mediali, così come ha smesso da tempo di affannarsi, attraverso il mezzo ormai trito della citazione, nel reiterare senza sosta la lezione appresa dall’arte del passato, per tornare a concentrarsi unicamente sulle potenzialità offerte dal proprio linguaggio specifico.
Non ci sono scorciatoie linguistiche di taglio postmoderno, nella pittura di Carolina Ferrara, non ci sono pastiches linguistici o affastellamenti di media diversi, non ci sono strizzate d’occhio verso il fruitore più colto e avvertito: c’è solo la consapevolezza della propria capacità di sedurre raccontando, con semplicità e immediatezza, i dettagli di una storia di cui non si conosce né il prologo né il finale, attraverso la capacità di ammaliarci con un dettaglio straniante, un gesto, un’atmosfera, un’espressione degli occhi o del volto di una donna o di un ragazzo ripresi in un momento di solitudine o di intimità familiare.
Donne, uomini, adolescenti, bambini, coppie, a tratti anche animali, sono al contempo i protagonisti e i comprimari di una inesausta commedia umana portata sulla tela con leggerezza e un velo di ironia, con una pittura di taglio vagamente espressionista, ma che si nutre, nello stesso tempo, della capacità di reinventarsi in continuazione, di mutare impercettibilmente, pur nella sua coerenza stilistica, e di saper estrarre dalla situazione di volta in volta narrata la tavolozza, i toni, il segno più adatto alla necessità del racconto.
A tratti più marcatamente realista, a tratti più sintetica e veloce, a tratti più intimista, la pittura di Carolina Ferrara è lo specchio di un incessante romanzo del quotidiano, che ci racconta un mondo nel quale ognuno di noi può rispecchiarsi e riconoscersi; è un gioioso e suggestivo racconto per immagini senza una connotazione geografica precisa, senza un tempo prestabilito, che non sia quello della nostra memoria e del nostro stesso vissuto, che, come in un gioco di specchi, sembra ritrovare, come accade nella migliore letteratura contemporanea, una corrispondenza con un sentimento che noi stessi abbiamo provato, un dettaglio di vita del nostro stesso passato, uno squarcio profetico su un nostro possibile futuro.
Vittorio Sgarbi